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Sono passati 4 anni da quando l'ho letto e confesso di non ricordare granchè. Purtroppo non solo per colpa mia: è un libro che si "fa leggere", piacevole ... eppure ti lascia, in definitiva, poco. Letto con piacere e dimenticato troppo presto.
Tiepido, questo "lungo racconto" della Bonansea. La buona idea di raccontare l'Italia del Novecento attraverso la storia di una famiglia piemontese non trova le parole giuste ed il romanzo risulta sfocato e per nulla incisivo. Peccato. 05/04/2004
Recensioni
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Il sottotitolo del romanzo di Bonansea (Di padre in figlio un lungo racconto sul Novecento) non dà conto della formula combinatoria con cui le vicende storiche sono intrecciate a quelle familiari. In verità l'autrice, che è socia fondatrice della Società italiana delle storiche e ha pubblicato saggi sulla soggettività, la memoria e l'immaginario femminile nel Novecento (dal fascismo agli anni cinquanta), non scrive un romanzo storico, ma usa alcuni rimandi simbolici alla storia (l'emigrazione, il fascismo, il bombardamento del luglio del '42 a Torino) per tessere la trama di vicende familiari e personali altrimenti condannate all'usura della memoria.
Il punto di avvio, che è la partenza del padre per l'Argentina, alla ricerca di fortuna e d'identità, è anche l'occasione per ribadire il legame (già stabilito dall'autrice nel precedente romanzo Margherita madre d'acqua, 1999) fra la storia degli uomini e l'acqua. Teodoro, il figlio degli emigranti che muore sulla nave e viene avvolto in una tela candida e affidato al mare, è il primo di una serie di personaggi il cui destino si decide in prossimità dell'acqua: lo seguiranno molte altre figure del romanzo, che accanto a uno stagno, a un acquitrino, a un pantano, a "un'acqua melmosa spettatrice" sentiranno vicina o incombente la presenza della morte. È il movimento dell'acqua che dà e toglie la vita, che consuma le esistenze e alla fine rende tutto uguale: la miseria dell'Argentina non è così lontana da quella che il padre, ritornato al suo paese, trova a casa, dove è difficile avere uno spazio proprio, ritagliarsi una felicità minima, "stare come il re e la regina", secondo un modo di dire piemontese che fa riferimento appunto alla gioia sfuggente di un momento eccezionale. Su ogni generazione pesa la stessa fatica materiale, la stessa difficoltà a capire gli altri e se stessi nella farragine del lavoro quotidiano.
Gli unici in grado di sottrarsi alla legge di un tempo circolare e alla condanna di un destino già scritto sono Esmeralda, la donna amata dal protagonista, e Tito, l'amico degli zingari, l'irregolare che vive sotto i ponti. Sono "anime fuggitive", persone che possono da un momento all'altro decidere fra vita e morte o sparire. Il loro desiderio è mobile e imperscrutabile e questo conferisce a entrambi il fascino degli artisti. Il protagonista sa che dovrà inseguire per tutta la vita Esmeralda, che pure l'ha sposato, dorme accanto a lui ed è la madre dei suoi figli: "E mi ripetevo, Esmeralda cambia, vedrai che cambia... Farà le cose con animo diverso, perché lo vuole lei e non perché è la famiglia a chiedere. Diavolo, non passerà tutta la vita a mezz'aria. E invece ho dovuto ricredermi perché non è successo. Esmeralda ha continuato così, ferma tra la terra e il cielo".
Le pagine in cui è descritta la passione per Esmeralda sono indubbiamente le migliori del romanzo, quelle in cui anche il linguaggio diventa più libero, mentre nella prima parte restava impigliato in un frasario forse volutamente antiquato. Sempre sul punto di andare, Esmeralda resta alla fine, forse per caso, ma afferma la propria indipendenza anche all'interno di un sistema tradizionale. È Tito invece, quello che sceglie di negare la vita, quando si sente braccato e immagina se stesso nel chiuso di una prigione. Ma il differente destino dei due personaggi ribadisce in realtà la loro profonda affinità interiore, nella contrapposizione al conformismo della società contadina che li considera con diffidenza e con timore. Esmeralda, incarnazione dell'eterno femminino, e Tito, eroe sacrificato sul traliccio dopo una folle corsa nella campagna, sono le figure mitiche in grado di sottrarsi agli eventi della storia, che sono calamitosi e luttuosi, e riguardano tutti gli altri personaggi della storia, le comparse, le zie, i molti sommersi delle osterie e delle cascine, i bambini innocenti, le donne rese folli dalla perdita dei figli.
Con questo lungo racconto Graziella Bonansea lascia affiorare la storia solo per mostrare i segni della sua opera di svilimento e di depauperamento, l'offesa inflitta agli umili, la replicazione degli orrori. La malattia, che nel romanzo precedente era il simbolo della corruzione del secolo, qui è sostituita dalla serialità dei personaggi, che alla fine non si possono distinguere, schiacciati dalla storia, e pagano il fio di una perdita d'identità. La storia livella e appiattisce le differenze fra gli uomini, dunque, invece di portare chiarezza e senso, toglie fiato e tempo, falcia la gente come erba del campo; in qualche modo lo sente anche il bambino che chiude il racconto, affondando la faccia nei fiori selvatici: "Quei papaveri rossi nel grano giallo pallido, quei papaveri così fini da sbriciolarsi al respiro, rarefarsi al palpito. Quei papaveri che non erano niente... non erano niente. Non erano niente".
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