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Crisi di valore. Lacan, Marx e il crepuscolo della società del lavoro - Fabio Vighi - copertina
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Crisi di valore. Lacan, Marx e il crepuscolo della società del lavoro - Fabio Vighi - copertina

Descrizione


Il 12 maggio 1972 Jacques Lacan tenne un intervento all’Università Statale di Milano intitolato "Sul discorso psicoanalitico", nel quale presentò un enigmatico ‘discorso del capitalista’ come supplemento alla teoria discorsiva teorizzata negli anni precedenti. Per quanto solo accennata, la sua analisi illustrava l’ingegnosità del modo di produzione capitalistico e insieme ne presagiva l’implosione. Peraltro, già nei seminari degli anni precedenti Lacan aveva iniziato la sua originale lettura di ciò che considerava il portato di verità della critica marxiana, concentrandosi sul tema della trasformazione capitalistica del lavoro e del sapere, e sul concetto di plusvalore. Per quanto avverso alla retorica sovversiva del ’68, in quegli anni Lacan assumeva dunque una posizione critica rispetto al capitalismo. Questo saggio parte dal Marx di Lacan – non il Marx dei movimenti operai, ma il critico del moderno sistema di produzione di merci – per mettere a nudo lo sfaldamento socio-ontologico del mondo contemporaneo, sorretto da una dinamica economica non solo in crisi, ma storicamente esausta e prossima al collasso.
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Dettagli

2018
29 marzo 2018
Libro universitario
238 p., Brossura
9788857546070

Voce della critica


Il mostro perverso. Il capitalismo e la sua crisi
di Giacomo Tinelli

Uno strabismo fondamentale, da sempre, contraddistingue il capitalismo: quello tra accumulazione e profitto. Ciò che consente di accumulare più capitale alla singola azienda, cioè il risparmio sul lavoro vivo (sulla base della compressione dei salari e soprattutto dell’investimento tecnologico), riduce la capacità complessiva del tessuto produttivo di creare plusvalore, estraibile esclusivamente dal lavoratore umano. Questa reciproca estraneità tra accumulazione e profitto è la causa di ciò che Marx ha chiamato “caduta tendenziale del saggio di profitto”, ossia la progressiva perdita di capacità di creare valore del sistema capitalistico. La tesi di Fabio Vighi in Crisi di valore – Lacan, Marx e il crepuscolo della società del lavoro (Mimesis 2018) è che la svolta digitale degli anni ‘70 e la conseguente efficientizzazione produttiva abbia reso tale flessione non più tendenziale ma assoluta e irreversibile. Il capitalismo, allora, colto da un’automazione febbrile, non sarebbe più in grado di produrre valore.


L’analisi dello studioso prende le mosse dall’enigmatica coincidenza che Lacan suggerisce − a partire dal XVI seminario (D'un Autre à l'autre, da poco uscito in traduzione italiana per Einaudi) − tra plusvalore e plusgodere, di fondamentale importanza per la teoria dei discorsi che lo psicanalista elaborerà intorno al ‘70. Una parentela stretta ma complessa, che il volume di Vighi ha il merito di chiarificare: il plusgodere è in relazione con il plusvalore in quanto entrambi, in una prospettiva psicoanalitica, rappresentano il resto non simbolizzato di un’opera di simbolizzazione. Da un lato, il plusgodere segnala il resto pulsionale dell’agganciamento del soggetto al linguaggio (ed è, insomma, il non senso che nasce all’interno del senso, ciò che sfugge ad esso, il buco necessario attorno al quale è organizzata l’articolazione del linguaggio); dall’altro il plusvalore segnala il savoir-faire del lavoratore, ossia ciò che egli sa fare al di là della propria consapevolezza e che è essenziale per il lavoro. Ora, afferma Vighi, è proprio questo savoir-faire che il capitalista espropria al lavoratore, più che la quantificazione delle ore di lavoro astratto non retribuite, che è il modo classico in cui Marx e i marxismi hanno descritto il plusvalore. Anzi, il vero inganno ideologico sta proprio qui: il padrone del discorso del capitalista sembra sottrarre ore, mentre sequestra savoir-faire. È proprio questa la differenza tra un padrone e un capitalista: il primo vuole che il lavoro sia fatto, non importa come; il secondo, invece, pretende di imporre il come il lavoro deve essere svolto, senza esserne mai soddisfatto. Il discorso del capitalista può allora essere considerato come un’isterizzazione del discorso del padrone, consentita essenzialmente dall’appoggio al paradigma scientifico. È quest’ultimo infatti o, meglio, una sua riduzione grottesca e semplicistica, che fornisce i parametri oggettivanti di efficienza che tanto vanno di moda oggigiorno. Modernizzazione, razionalizzazione, new public managementspending review: gli strumenti, tutt’altro che neutrali, che i “tecnici” capitalistici utilizzano per giustificare le scelte di politica economica segnalano il nodo in cui convergono capitalismo e scienza, il luogo della loro collusione. Lacan diceva, appunto, che questi vanno a braccetto. In effetti quale discorso più efficacie di quello scientifico, ridotto al suo scimmiottamento oggettivistico, per legittimare le scelte contro il lavoro cui abbiamo assistito negli ultimi dieci anni? Appoggiandosi al gigantesco potenziale di automazione offerto dalla tecnologia, le scelte che si dicono “di efficienza produttiva” non si accontentano mai, né potrebbero farlo. Da questo punto di vista la scienza è tutt’altro che neutrale: al fondo del suo ragionamento, infatti, c’è la stessa pulsionalità denegata e impossibile da soddisfare, che potrebbe equipararsi al discorso del tossicomane: “non ne sappiamo abbastanza, dobbiamo saperne di più, ancora di più, ancora e ancora”. Allo stesso modo l’automazione del lavoro non troverà mai soddisfazione. Sarà questa la pietra tombale che sotterrerà il capitalismo, a proposito del quale, come ricorda Vighi, Lacan ha pronunciato un chiaro vaticinio: esso è “molto astuto, ma destinato a scoppiare”?

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